IL LEBBROSO …. di don Giuseppe Marino

…sofferenza che diventa preghiera….

15/02/2015

La liturgia di questa sesta domenica del tempo ordinario ci pone dinanzi all'episodio di un lebbroso che viene risanato da Gesù. Per comprendere l'inerenza di questa parola con la nostra vita è opportuno fare una breve digressione sulla condizione dei lebbrosi al tempo di Gesù. La lebbra è una malattia orribile che porta alla putrefazione del corpo. Mentre il malato di lebbra è in vita, vive già una condizione di morte. Come doveva comportarsi un lebbroso? Secondo le norme che presenta il libro del Levitico al capitolo 13, di cui abbiamo uno stralcio nella prima lettura, il lebbroso era costretto a vivere fuori dell'accampamento, con una campana al collo che avvertisse la sua presenza, ed era costretto a denunciare se stesso urlando: 'lebbroso! lebbroso!'. Si trattava dunque di una condizione di solitudine imposta dalla legge. Proprio questa condizione si rivela come una spinta per ricorrere a Gesù, ed infatti, anche se non può, gli si avvicina. Per noi è importante cogliere questo aspetto: Gesù è colui al quale ricorrere nella nostra condizione di solitudine. La solitudine è espressione del non-senso, della disperazione, del buio, dell'apparente mancanza di vie d'uscita. In questa situazione Gesù c'è!

Il lebbroso si inginocchia e lo supplica: è il gesto della sofferenza che diventa preghiera. Quest'uomo sa pregare perché è consapevole della sua solitudine. Ci sono tante condizioni di solitudine nella nostra vita, dinanzi alle quali noi siamo rassegnati, dalle quali riteniamo di non poter (o non vogliamo) rialzarci, o nelle quali ci siamo accomodati. La liberazione parte dalla consapevolezza del male, da un desiderio di abbandonare un vicolo cieco. Dio non ci libererà mai da ciò di cui noi non vogliamo liberarci. Questo lebbroso è stanco della sua solitudine ed è consapevole della sua condizione di morte. Allora prega, chiede aiuto. Spinto dalla sua sofferenza, si rivolge a Gesù.

È sufficiente questo per essere liberati? No. Perché la nostra liberazione non dipende da noi, ma dall'amore di Dio. Gesù sente compassione, lo capisce, ha una risposta. Il lebbroso non è liberato perché la sua preghiera è buona, ma perché Dio è compassione, misericordia. Ed infatti la guarigione arriva quando Gesù tende la mano, lo tocca e dona la sua parola: 'Lo voglio!'. Gesti e parole si intrecciano: è una liturgia. La liturgia è l'espressione di una relazione personale, la celebrazione di un incontro con il Salvatore. E' una relazione che, appunto, salva.

C'è un aspetto da non trascurare: 'Lo voglio!'. Gesù esprime la sua volontà, la volontà di Dio. Noi a volte abbiamo un'idea lontana della volontà di Dio. Crediamo che Dio abbia bisogno della nostra volontà per fare i suoi interessi. No. La sua volontà è la mia felicità, la mia guarigione, la mia vita, sono io. Se capissimo di più questo riusciremmo certamente a vivere con maggiore serenità ogni evento lieto o triste della nostra esistenza certi che Dio sta tracciando una strada di salvezza per ciascuno di noi.

Un ultimo particolare. Il lebbroso riceve la guarigione ma non obbedisce al comando di Gesù. Può accadere anche questo, di ricevere numerose grazie ma andare per altre strade; si può ricevere vita ma sprecarla su strade di morte. Per ritornare su strade di vita e fare in modo che Dio possa continuare ad arricchirci dei suoi doni è necessario un tempo intermedio tra la guarigione e la missione. Il lebbroso è sfuggito alla grazia di questo tempo, rappresentato dalla purificazione presso i sacerdoti; noi ci apprestiamo a viverlo nella Quaresima che inizierà con il prossimo mercoledì “mercoledì delle ceneri”.