Quando si può staccare la spina - di P. Lorenzo Giordano sj

Nuove riflessioni per chiarificare un tema difficile ma delicatissimo

21/04/2007
Nei primi due interventi spero di essermi spiegato chiaramente sotto tutti gli aspetti nel definire l’eutanasia secondo il Magistero della Religione Cattolica e nello spiegare come, di conseguenza, essa non potrà mai essere proposta “come forma estrema di carità”.
 
Rispondo ora alla domanda: “Quando si può staccare la spina?”
 
La domanda è quanto mai appropriata per un chiarimento tra i termini “eutanasia” ed “accanimento terapeutico” che spesso sono confusi per le nuove tecnologie mediche.
Propongo due articoli autorevoli su cui riflettere e vedere la problematicità.
Il primo è di Mons. Elio Sgreccia, presidente della Pontificia Accademia della Vita edito dal Corriere della Sera di martedì 23 gennaio 2007. Intendo dare una precisazione sui concetti “accanimento terapeutico e proporzionalità e sproporzionalità” delle terapie: le due nozioni sono collegate, perché per accanimento terapeutico si intende in sostanza l’impiego di terapie o procedure mediche di carattere sproporzionato. Queste terapie, come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica, non presentano una ragionevole speranza di esito positivo e pertanto ad esse non solo si può, ma si deve rinunciare, poiché l’accanimento terapeutico, risultante dalla sproporzionalità e inutilità degli interventi o procedure mediche, è illecito sempre, in quanto offende la dignità del morente.
Altra cosa è l’insistenza terapeutica, quando esiste una ragionevole speranza del recupero del paziente. Ma il giudizio sulla proporzionalità-sproporzionalità è un giudizio di adeguatezza o meno del tipo di intervento e/o del mezzo terapeutico usati in ordine al raggiungimento di un determinato obiettivo medico prefissato pertanto, questo giudizio richiede una valutazione che va fatta dal medico, sul piano squisitamente tecnico scientifico e alla luce dei dati di esperienza. L’esigenza del tener conto della volontà e del parere del paziente, esigenza sentita nella dottrina tradizionale della morale cattolica, è collegata al concetto di ordinarietà-straordinarietà che assumono le terapie in relazione alle condizioni fisiche, psicologiche, sociali ed economiche del paziente considerato nella sua situazione concreta.
In questo ambito va certamente ascoltato il parere del paziente e va tenuta in conto la sua volontà. Ciò risulta dall’insegnamento valido dai tempi di Pio XII (cfr. Discorso del 24.11.1957) ad oggi. Ci può essere una terapia che in se stessa risulta proporzionata dal punto di vista medico, ma che il singolo paziente giudica come straordinaria e non appropriata alle sue condizioni. E, si badi bene, ciò che è straordinario, non è moralmente proibito, bensì soltanto non obbligatorio.
Si può dare il caso di un intervento costoso oppure rischioso per un determinato soggetto, che pur essendo medicalmente proporzionato, non è sopportabile da quel soggetto, o non lo è più ad un certo momento, per situazioni di carattere personale.
Tali condizioni peraltro, pur nascendo in relazione ad un soggetto, hanno una oggettività e una rilevanza in base alle quali il soggetto stesso può dare il consenso oppure può chiedere legittimamente di rinunciarvi.
In sintesi sono due i criteri che vanno coniugati: quando si tratta di terapie proporzionate (dal punto di vista medico) e ordinarie (dal punto di vista del paziente), c’è l’obbligo morale di offrirle e di accettarle (a parte la possibilità giuridica di rifiutarle); circa le terapie sproporzionate (ordinarie o straordinarie che siano), sussiste il dovere etico di rifiutarle, ordinariamente; per quanto riguarda poi le terapie medicalmente proporzionate, ma che risultassero straordinarie per il paziente, egli non sarà moralmente obbligato a sottoporvisi, ma potrà lecitamente farlo se lo decide: l’offerta e l’accettazione dipendono dalla matura e prudente scelta del paziente.
Su questa dottrina si può leggere con frutto un lavoro recente di M. Calidari dal titolo: “Curarsi e farsi curare tra abbandono del paziente e accanimento terapeutico”, (ed. S. Paolo, 2006).
Infine, quando si parla del “rifiuto delle terapie” da parte del paziente, il medico, pur avendo il dovere di ascoltare il paziente, non può essere ritenuto un semplice esecutore dei suoi doveri: se riconosce la consistenza dei motivi del rifiuto, dovrà rispettare la volontà del paziente, se invece vi scorge un rifiuto immotivato, è tenuto a proporre la sua posizione di coscienza e, se del caso, proporre il ricorso all’autorità competente, ed eventualmente, dimettere il paziente che gli è stato affidato come responsabilità.
L’automatismo instaurato dalla legge francese (art. 6) legge citata dal Card. Martini nel suo articolo, secondo la quale qualunque rifiuto delle cure da parte del paziente deve essere accolto ed eseguito dal medico (dopo aver spiegato al paziente gli effetti del rifiuto) può configurarsi un’eutanasia omissiva sia da parte del paziente sia da parte del medico.
 
LE CURE PALLIATIVE
Per questo non vedo come il modello francese, citato dal Card. Martini ma anche citato da altri, possa rappresentare un criterio moralmente valido. Io personalmente non mi auguro la stessa cosa per l’Italia. Condividiamo tutti il richiamo del Cardinale circa l’impiego delle cure palliative, che comprendono anzitutto la sedazione del dolore, e circa l’obbligatorietà delle cure ordinarie (distinte dalle terapie!), quali l’alimentazione, l’idratazione e la cura del corpo che rimangono obbligatorie sempre, anche qualora si tratti di pazienti in stato vegetativo persistente.
Circa eventuali ulteriori interventi legislativi per garantire la legittimità del rifiuto delle terapie, non so se ciò sia necessario; semmai dovrebbe avvenire per garantire anche la coscienza del medico ed evitare anche l’introduzione surrettizia dell’eutanasia omissiva alla maniera francese.
 
L’ASSISTENZA
Rimane invece da chiedere tutto lo sforzo dello stato e delle comunità per l’adeguatezza dell’assistenza terapeutica, palliativa e umana specialmente nell’attuale clima di difficoltà nelle strutture sottoposte a restrizione di spese e di personale, e specialmente quando si tratta di ammalati anziani e non autosufficienti. Rimane anche urgente il discorso di una formazione etico-deontologica del personale medico-assistenziale di fronte alla complessità dei problemi ed anche di fronte alla non chiarezza di alcune tendenze culturali favorevoli all’eutanasia mascherata di rivendicazioni di autonomia e afflitta dalla solitudine morale.
L’autonomia vera, cui allude lo scritto del Cardinale, quando invita a guardare in Alto, si determina con l’accettazione consapevole del dono di sé anche nel momento di una morte accolta ed offerta, offerta che dovrebbe compiere in pienezza il dono di sé, fatto durante i tempi della salute e dell’impegno lavorativo.
 
QUANDO SI PUO’ STACCARE LA SPINA
Il secondo articolo è del cardinal Martini, pubblicato su 24 Ore, domenica 21.01.2007
La crescente capacità terapeutica della medicina consente di protrarre la vita pure in condizioni un tempo impensabili. Senz’altro il progresso medico è assai positivo.
Ma nello stesso tempo le nuove tecniche che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona.
E’ di grandissima importanza in questo contesto distinguere tra eutanasia e astensione dall’accanimento terapeutico, due termini spesso confusi. La prima si riferisce ad un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte; la seconda consiste nella “rinuncia … all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo” (Compendio Catechismo della Chiesa Cattolica n. 471).
Evitando l’accanimento terapeutico “non si vuole … procurare la morte: si accetta di non poterla impedire” (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 278) assumendo così i limiti propri della condizione umana mortale.
Il punto delicato è che per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. In particolare non può essere trascurata la volontà del malato, in quando a lui compete – anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite – di valutare le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate.
Del resto questo non deve equivalere di lasciare il malato in condizione di isolamento nelle sue valutazioni e nelle sue decisioni secondo una concezione del principio di autonomia che tende erroneamente a considerarla come assoluta. Anzi è responsabilità di tutti di accompagnare chi soffre, soprattutto quando il momento della morte si avvicina. Forse sarebbe più corretto parlare non di “sospensione del trattamento” (e ancor meno di staccare la spina) ma di limitazione dei trattamenti.
Risulterebbe così più chiaro che l’assistenza deve continuare commisurandosi alle effettive esigenze della persona assicurando per esempio la sedazione del dolore e le cure infermieristiche: Proprio in questa linea si muove la medicina palliativa, che riveste quindi una grande importanza.
Dal punto di vista giuridico, rimane aperta l’esigenza di elaborare una normativa che, da una parte consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto (informato) delle cure – in quanto ritenute sproporzionate dal paziente – , dall’altra protegga il medico da eventuali accuse (come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio), senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell’eutanasia. Un’impresa difficile, ma non impossibile; mi dicono che ad esempio la recente legge francese in questa materia sembri avere trovato un equilibrio se non perfetto, almeno capace di realizzare un sufficiente consenso in una società pluralista.
 
L’insistenza sull’accanimento da evitare e su temi affini (che hanno un alto impatto emotivo anche perché riguardano la grande questione di come vivere in modo umano la morte) non deve però lasciare nell’ombra il primo problema che ho voluto sottolineare. E’ soltanto guardando più in alto e più oltre che è possibile valutare l’insieme della nostra esistenza e di giudicarla alla luce non di criteri puramente terreni, bensì sotto il mistero della misericordia di Dio e della promessa della vita eterna.
Ad ogni modo lascio a voi la lettura e la riflessione sui due documenti su cui ritornerò nel prossimo scritto specialmente cercando di riflettere ancora assieme sulle insoddisfazioni e sulla ricerca interiore del Card. Martini, grande uomo di pensiero e di fede su cui vengono espresse anche se con toni felpati pur apprezzandone alcuni passaggi ed esposizioni.
 
Nel ricordo sempre vivo del carissimo P. Taddei porgo distinti saluti e auguri anche se in ritardo per una Pasqua di gioia e di pace. (P. Lorenzo Giordano sj)