La voce dei Profeti: Amos - di Mons. Giovanni Battista Chiaradia

Un profeta-pastore e la visione della futura Capanna di David

10/11/2007
Ogni tanto le Scritture Domenicali ci presentano una scossa di attenzione e di ravvedimento più forte ed incisiva del solito.
Puntualizzazioni che spesso dimentichiamo oppure riserviamo per un’altra volta che non arriva mai.
È il caso del Profeta Amos apparso nella Liturgia dell’ultima Domenica di Settembre, vissuto verso il 750 prima di Cristo, periodo in cui la Palestina cercava di presentarsi come regione di grandi aspettative.
Della sua vita sappiamo poco di preciso. Dove è nato, la sua generazione, la sua persona.
Sappiamo che era un pastore: in quel tempo le professioni più importanti erano o pastore o contadino. C’erano anche gli artigiani del ferro e del legno, come l’archeologia dimostra, ma se ne contavano pochi in tutta la regione.
Spesso il pastore era anche contadino, capace di tirar su una casa che poi era una capanna, come si vede ancor oggi in alcune zone dell’Africa e dell’Oriente.
Non è ancora finito il tempo delle capanne!
Velocissimo invece è stato il tempo di chi è riuscito a sganciarsi dalla miseria della capanna per raggiungere una vita personale e sociale di inaudita ricchezza senza curarsi di molti altri lasciati nella più squallida miseria.
Amos denuncia coloro che «calpestano, come la polvere della terra, la testa dei poveri».
Parla spesso di «palazzi» e l’archeologia lo attesta in quel tempo e di coloro che «hanno venduto il giusto per danaro» e «il povero per un paio di sandali».
E scaraventa addosso la profezia del giudizio «(…) non scamperà il corridore né si salverà il cavaliere».
Amos si sente toccato dalla opulenza del ricco, lui che dopo la pastura del gregge andava a cercare i fichi per portarli in famiglia che come tutte le famiglie di allora, era patriarcale.
Ci domandiamo come questo tipo di uomo che non aveva mai visto una scuola, sia riuscito ad inventare un libro di quel genere che ha trovato posto nella sacra letteratura biblica, uno dei libri più incisivi dell’antichità.
L’ha scritto lui? Difficile saperlo. Certamente, come per tutta la letteratura biblica, ci sono stati degli anonimi redattori che hanno raccolto le memorie, conservate a voce o con papiri e pergamene. Per Amos, oggi, abbiamo nove piccoli capitoli in continua fibrillazione.
Ci sono delle intemperanze che dimostrano che razza di caratteraccio era Amos come il giudizio sulle donne di Samaria che non esita a definire «vacche di Basan che siete sul monte perché opprimete i deboli, schiacciate i poveri e dite a vostro marito: porta qua (…) beviamo! Sarete prese con ami e con arpioni da pesca e sarete cacciate via (…)»
E scaraventa addosso, impietoso, carestie, pestilenze, terremoti.
Il suo grido di dolore te lo senti addosso alla lettura.
Il Re Amazia lo caccia via, ma lui continua nella sua radura, tra pecore e capri e la pentola del cacio e i fichi e non si ferma nel denunciare il male.
La conclusione del Libro di Amos è imprevedibile.
Dopo la scossa, si calma e predice la restaurazione di Israele, colpita da nemici.
Parla della «capanna di David» ora distrutta che tornerà meravigliosa nella bellezza di una età in arrivo.
Vede, il profeta pecoraio Amos, un tempo di bontà e fraternità: «verranno giorni in cui chi ara incontrerà chi miete e chi pigia l’uva con chi getta il seme».
Amos in quella versione è un altro, l’ira gli è passata.
Lo vedo con le lacrime agli occhi, mentre sta contemplando «una capanna».
700 anni prima ha visto Betlemme! (GIOVANNI BATTISTA CHIARADIA)