Le Olimpiadi - di Mons. Giovanni Battista Chiaradia

Valore morale ed etica del corpo dall'antichità al XXI secolo

25/09/2008
Settembre: la prima avvisaglia autunnale.
Dopo esserci confrontati con noi stessi nelle «riflessioni sotto l’ombrellone», usciamo dal nostro «io», che abbiamo cercato di rinnovare, e guardiamoci attorno per vivere l’insieme, specialmente quei momenti che sono stati straordinari, nell’intento di imparare qualche cosa di nuovo o piuttosto col proposito di far riemergere certe posizioni di vita che sono essenziali in una personalità invasa da problemi del proprio quotidiano.
Imparare a vivere sempre con gli occhi vigili e la mente aperta al messaggio degli avvenimenti che giungono a scadenza regolare importanti, grandiosi come quelli delle Olimpiadi che risalgono al 776 a.C., anno della prima celebrazione ad Olimpia, in Grecia.
Nel 339 d.C. l’imperatore Teodosio le proibì per il loro carattere pagano.
Dopo un congresso tenuto a Parigi nel 1894 le nuove Olimpiadi furono tenute ad Atene nel 1896.
Sospese durante la guerra, ora vengono celebrate ogni quattro anni e sono attese da tutto il mondo.
L’aspetto più importante delle Olimpiadi è il vedere radunati i migliori atleti, provenienti da tutto il mondo.
È una realtà che si verifica solo nelle Olimpiadi e che riveste un grande valore non solo agonistico, ma specialmente morale.
Tutto ciò avviene in un clima di grande agonismo che è innato nell’essere umano: si dà tutto per battere l’avversario, ma fuori dal campo, nel villaggio olimpico, regna la fratellanza.
San Paolo, tra realtà e metafora, parla della disciplina dell’atleta:
«Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono ma uno solo conquista il premio?
«Correte anche voi in modo da conquistarlo.
«Però ogni atleta è temperante in tutto… io corro, ma non come chi è senza meta, faccio pugilato ma non come chi batte l’aria, tratto duramente il corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo aver predicato agli altri, venga io stesso squalificato». (1 Cor. 9,24)
Scopo morale dell’atleta è quello di vincere la staticità, l’inerzia, la pesantezza nell’intento di un corpo slanciato, snello, elegante, disinvolto.
Questa è l’etica del corpo che va trattato con disciplina perché resti come Dio l’ha creato e come la natura esige.
Deve restare agile, svelto, spedito, sciolto, elastico e quindi «leggero» contro la pesantezza dell’alcool e della droga.
Perché parlo di «leggerezza» in senso positivo, di agilità, scioltezza?
Italo Calvino nelle sue «Lezioni americane» si riferisce alla poesia delle metamorfosi di Ovidio in cui Perseo uccide a colpi di spada la pesante testa della Medusa e la depone in un «leggerissimo» strato di foglie e ramoscelli, in una tensione immane di leggerezza.
Calvino cita pure Montale in una poesia del 1953 in cui mette a confronto un Lucifero dalle ali pesantissime di bitume che cala sulle capitali dell’occidente e , nell’ansia di avere qualche cosa di leggero attorno a sé, raccomanda alla sua amica: «Conservami la cipria nello specchietto, quando la sardana si farà infernale».
Così anche Milan Kundera nel suo romanzo: «L’insostenibile leggerezza dell’essere» in contrapposizione alla «Ineluttabile pesantezza del vivere».
Tra realtà e memoria le Olimpiadi sono state davvero motivo per una riflessione profonda.
(Mons. Giovanni Battista Chiaradia)