Halloween o festa dei morti? - di Don Gigi Di Libero sdb

La notte delle streghe: dal rito al business

01/11/2008
Happening cimiteriale, horror per bambini, notte dei morti viventi.
È Halloween, il format festivo più diffuso di tutti i tempi.
Zucche dal volto umano e siti Internet, arcaiche simbologie agrarie e nuovi rituali metropolitani.
Incrocio tra l’antica festa celtica del ritorno dei morti e la cristiana notte di Ognissanti.
Ormai pare che Halloween si sia del tutto... italianizzata, almeno a giudicare dal successo che questa festa straniera riscuote da alcuni anni fra i giovani: discoteche, pub e altri locali organizzano per il 31 ottobre serate e nottate all'insegna di horror, vampiri, teschi, fantasmi, pipistrelli e... zucche!
Ogni supermercato ha predisposto un settore specifico, traboccante di zucche di plastica illuminate, maschere spaventose, scheletrini e scheletroni, denti da vampiro, mani mozzate...
Per quanto si sforzi di apparire goliardico, mercantile, superficiale, questo sabba del villaggio globale non riesce a nascondere la sua vera e profondissima natura di veglia funebre.
Il che, a dispetto di dolcetti e scherzetti, lo apparenta alla più antica e diffusa famiglia di rituali umani. Quelli che servono a stabilire rapporti di buon vicinato tra vivi e morti.
 
Lo confesso: la novità non riesce a penetrare nelle mie abitudini psicologiche e spirituali… tanto meno esteriori e di supposto godimento o passatempo scherzoso…
Queste zucche illuminate che dovrebbero impaurirmi con maschere, teschi vari, luci e lumini… non solo non mi spaventano o impressionano ma neppure mi fanno divertire o mi pongano in situazione di allegra spensieratezza che in una risata carnevalesca si scarica e dimentica i problemi o la noia opprimenti della vita…
A me continuano a sembrare scherzi bambineschi che uniscono cantilene a scherzetti, maschere mal conciate a colori e luci che dovrebbero far rabbrividire… roba da piccoli esseri scherzosi e superficiali in cerca di evasioni e di dabbenaggine di qualcuno che, volenti o nolenti, deve stare al gioco e sganciare qualcosa di dolce o almeno di passabile…
 
Come suggeriscono i testi, trovati su giornali e riviste e sopra citati, i collegamenti culturali possono moltiplicarsi: da quelli atavici e lontanissimi, pagani o paganeggianti, a quelli di stretta matrice cristiana come la commemorazione dei defunti unita indissolubilmente alla festa di Ognissanti.
Oppure si fa riferimento al ritornante bisogno dell’uomo di ogni cultura di confrontarsi con il buco nero della morte che terrorizza o appare come un dolce e melanconico nirvana di chi, rassegnato, rientra nel nulla.
In ogni caso la nostra psiche vorrebbe o rimuovere o dimenticare o farsi scuotere da questo orrido spavento per poter reagire in qualche modo con rigurgiti di vitalità.
 
Fin da bambino sono stato messo di fronte alla morte con naturalezza, che incuteva certo paura e senso del mistero, distacco doloroso e impressionante, ma sfociava quasi naturalmente in un saluto a chi non veniva distrutto o annullato ma si trasformava in una presenza dolce e amorevole.
L’ultima convinzione che ne scaturiva, per un insieme di dettagli e di consolanti parole e sentimenti espressi da tutti, era la certezza che quella misteriosa e nuova presenza in qualche modo era protettiva e capace di aprirti alla vita che tu dovevi continuare anche per chi si era fermato.
Lo ritengo una grande fortuna: la morte non mi ha mai terrorizzato e non mi sono mai dovuto sforzare di esorcizzare o nascondere un evento che appartiene alla vita e alla vita di tutti.
 
Maturando nella vita, attraverso esperienze e responsabilità a volte esaltanti e a volte deludenti o dolorosamente capaci di lasciarti ferito e interdetto, mi sono confrontato in modo più intimo e profondo con la mia morte, sempre possibile e dietro l’angolo: ne ho sentito il doloroso vuoto e la ferita di chi ama vivere e si sento svuotato fatalmente e contro la propria stessa voglia di amare e di vivere per sempre.
Ho dovuto lottare con la morte per trovare una parola e una sua rappresentazione con cui potermi rappacificare. Ho letto con piacere in questi giorni della lotta dolorosa e angosciata che il Cardinal Martini ha intrapreso con Dio per dare senso al non senso assoluto della morte, per chi se ne sente colpito come da una ferita che provoca uno svuotamento assoluto e irragionevole.
Come ha testimoniato il Cardinale, anch’io sono riuscito a rappacificarmi con la mia morte leggendola come un modo misterioso di cambiare vita per iniziare una vita nuova e arricchente che non rinnega niente del già vissuto e delle persone amate, ma si apre ad una contemplazione nuova ed inimmaginabile che riempie di un senso nuovo e meraviglioso tutto il nostro essere e tutta la nostra storia.
 
Invecchiando sto comprendendo sempre di più il valore incommensurabile della Parola che ha vinto la morte e che ha donato la gioia della speranza: Cristo, Parola di vita, che dona la sua vita accettando di morire per trasformare anche la morte in amore che salva e riunisce tutti in una comunione nuova e indistruttibile.
E sto finalmente capendo che cosa vuol dire fare pace con la nostra morte e con la morte delle persone che mi sono care.
E soprattutto sto valorizzando pienamente la bellissima tradizione cristiana, in cui sono nato e sono stato cresciuto, di sfociare dalla commemorazione dei defunti alla gioiosa compagnia dei Santi che, sono morti, ma vivono nella gioia della contemplazione di Dio Amore infinito e sono la nostra vera compagnia.
Si vive sempre meglio e con maggior entusiasmo sentendo accanto a noi tutte le persone che amiamo e che, “apparentemente” morte, sono ancora vive per proteggerci e per fare il tifo per noi… con la gioia e l’amore di sempre.
Defunti e Santi sono una fonte inesauribile di fede vera e di gioiosa speranza: e chi oggi ne può fare a meno?
E non sarà “questa speranza” l’unica vera e preziosa eredità da lasciare ai figli e alle giovani generazioni? (Don Gigi Di Libero sdb)