Carità come compassione - di Mons. G.B. Chiaradia

La cultura laica è un dono di Dio: il vero profeta lo sa sempre

27/06/2009
La filosofia ha inserito nel pensiero alto della sapienza la compassione facendola parte della ragione intellettiva.
Schopenhauer definisce la compassione essenza di ogni amore e solidarietà, amore e solidarietà che si spiegano alla luce del dolore della vita. (Die welt, 1, par. 66-67).
Adamo Smith nella «theory of moral sentiments III, 1» pone la compassione come struttura di tutti i sentimenti morali.
Tre le fasi della compassione, fasi che acquistano significato a partire dal mondo in cui la persona risponde a queste domande:
1) Che cosa esige la persona o la circostanza che mi si presenta?
2) Qual è la risposta adeguata?
3) Come posso essere persona che risponde alla domanda, specialmente, o a qualcuno altro interrogativo di uno che incontro, a maggior ragione di uno che si è affidato a me?
La prima fase è quella dell’empatia (patire in, dentro di sé) o compassione silenziosa.
Questo silenzio non deve essere un vuoto iniziale: deve essere rispetto, in quanto sentimento di riverenza. «Volgersi a guardare», «guardare intensamente», il che è già un atto di amore e toglie la superficialità. Diventa un silenzio costruttivo che spinge se stesso a scoprire il linguaggio della domanda del prossimo, anche solo intuita, a maggior ragione il linguaggio della sofferenza, non in maniera universale e oggettiva, ma personale, soggettiva. Un bambino ha un linguaggio diverso dall’anziano. Un degente, per trauma cranico, ha un linguaggio diverso da un malato in fase terminale. È una compassione di presenza eloquente anche senza parole.
La seconda fase è quella della compassione espressiva in cui il dialogo pone dei gesti di comunicazione, di aiuto concreto, di assistenza, però a prova di fatica.
Le due fasi, silenzio e comunicazione, vengono elevate, nell’etica cristiana, dalla «trasfigurazione del volto». Quel volto diventa il Cristo nelle sue diverse fasi di vita.
Il Bambino che soffre è il Bambino Gesù a Betlemme, la partoriente per strada è la Madonna nella capanna, il malato, Gesù nella passione.
Questa trasfigurazione del volto è l’atto essenziale e pieno d’amore evangelico.
La terza fase della compassione è quella che dà valore alla propria nuova identità, dopo le esperienze delle prime due.
Hegel tratta il concetto di amore esclusivamente sotto l’aspetto fisiologico.
In un suo scritto giovanile c’è una definizione di amore-compassione: «È un sentimento infinito per cui il vivente sente il vivente».
Per sentimento infinito Hegel intende che non ha i confini del diritto, cioè l’amore è antitesi a tutte le opposizioni e a tutte le molteplicità.
Queste annotazioni di Hegel ritornano poi nella maturità: «L’amore esprime in generale la coscienza della mia unità con l’altro, per cui io, per me, non sono un isolato, ma la mia autocoscienza si afferma solo come rinuncia al mio essere per sé e come unità di me con l’altro (Filosofia del diritto pag. 158).
Ancora Hegel nelle «lezioni d’estetica»: «La vera essenza dell’amore consiste nell’abbandonare la coscienza di sé, nell’obliarsi in un altro se stesso e tuttavia nel ritrovarsi e possedersi veramente in quest’oblio.
Quindi è identificazione del soggetto in un’altra persona, è il sentimento per cui due esseri esistono solo in una unità perfetta e pongono in questa identità tutta la loro anima e il mondo intero».
«Questa rinuncia a se stesso, per identificarsi con l’altro, questo abbandono nel quale il soggetto ritrova tutta la sua pienezza del suo essere, costituisce il carattere infinito dell’amore».
Da questo punto di vista, Hegel afferma che la morte di Cristo è l’Amore più alto, nel senso che esprime l’identità del divino con l’umano e, così, è «l’intuizione dell’unità nel suo grado assoluto, la più alta intuizione dell’amore» (Filosofia della religione pag. 304 ed tedesca).
Questa nozione, che vede nell’amore la totalità della vita, è considerata fonte di civiltà a prescindere dal Vangelo e si ritrova in tutta la tradizione letteraria del romanticismo, specialmente nella narrativa.
Il vedere nell’amore la totalità della vita e dell’universo, nella forma di un «sentimento infinito», ha anche penetrato di sé il costume e la vita dei popoli occidentali, sino alla metà del nostro secolo.
Purtroppo in questi ultimi decenni questa nozione si è così affievolita tanto da scomparire. È rimasta solo la posizione evangelica contrastata da fortissime tensioni materialistiche.
Ci si domanda che cosa è successo e quale possa essere, e dove e di chi, la responsabilità.
Urge, nella meditazione della Quaresima, la raccomandazione di Giovanni Battista: «Cambiate mente», ritornando alla cultura laica del passato, avvalorata dal messaggio cristiano.
Il profeta della Bibbia, e così anche il profeta del nostro tempo, pone attenzione alla cultura laica che è sempre un dono di Dio, quando avvalora  l’esistenza individuale e sociale.
E quando l’uomo, invece, cerca di dimenticarla, oppure di rovesciarla nella superficialità e nella cattiveria, deve adoperarsi in ogni modo perché la conversione» cominci proprio dalla critica dei linguaggi negativi, quei mali che specialmente il nostro tempo ha sperimentato dolorosamente.
Mons. GIOVANNI BATTISTA CHIARADIA