Festa: riposo del corpo e rinnovo della mente - di Mons. G.B. Chiaradia


05/08/2009
Nella memoria di S. Giovanni Battista, cugino di Gesù e Suo coraggioso precursore fino al martirio, ho pensato, in Suo onore, di presentare ai gentili lettori i miei pensieri sul concetto di festa, così come è attesa, vissuta, amata, dai grandi della letteratura, per avvertirne maggiormente il messaggio e, direi, anche perché nel nostro tempo si alzi di tono.
Diventi si riposo, svago, gioco, ma anche pensiero forte che doni una scossa di riflessione e limpidezza per la settimana dell’impegno.
La radice di «festa» è la stessa del vocabolo latino «fanum». Difatti procede dall’indoeuropeo FA, in latino diventa FAS che indica il diritto divino, il sacro, il tempo della divinità. Da quella radice procede anche la parola «favola», il primitivo racconto storico – fantasioso, quando l’uomo, appena diventato «sapiens», ha cominciato a pensare, a parlare, a raccontare, a fabulare (un latinismo) sul mistero.
Quanto si è perduto di quel significato nel corso dei millenni!
Marco Polo, nelle sue memorie, parlando dei primitivi che incontrava, si esprime così: «Fanno onore agli idoli, il dì della loro festa, ché ciascuno idolo ha propria la propria festa, com’hanno gli nostri santi».
Carducci descrive il giorno di festa così:
«Van con lui tutti i fedeli/ van gli abbati e i baroni/ quanta festa di colori/ di cimieri e di pennoni»!.
Noi non possiamo dimenticare la sacralità del dì di festa, ma la vogliamo pure manifestare con gioia ed anche con allegria, ma sempre composta.
Visti i tempi che stiamo attraversando, mi piace ricordare il Leopardi che vive la festa nella mesta memoria di un affetto perduto: «Se a festa anco talvolta/se a radunanze io movo, infra me stesso/ dico, o Nerina, radunanze e feste/ tu non ti acconci più, tu più non movi».
In questi giorni, nella memoria di delitti, guerre, falsità, immortalità pubbliche, ci è difficile, come dice il Leopardi, «acconciarci a festa».
La parola «festa», nel nostro tempo, è vissuta, forse non da tanti, ma da non pochi si, nel senso antifrastico (contro espressione) nel significato di «far del male», o addirittura di «uccidere».
Siamo in vena di citazioni. Sentiamo il Manzoni: «In mezzo però alla festa e alla baldanza c’era un’inquietudine, un presentimento che la cosa non avesse a durare».
Difatti è l’epoca questa che quando viviamo un po’ di serenità e di pace, all’improvviso ci nasce dentro un’inquietudine, un presentimento, una paura che smorza il sorriso, fa corrugare la fronte, ci rende pensosi.
Ancora il Manzoni che fa dire a Don Rodrigo: «ma che sotto questo tetto ci fosse una spia! Se c’è, se lo arrivo a scoprire… te l’accomodo io. Ti so dir io, Griso, che lo acconcio per il dì delle feste».
Ogni festa ha sempre un’antitesi. Noi siamo fatti così. È l’antico peccato d’origine che si ripete: il bene si cambia in male, la sapienza in stupidità. Qualcuno dice che nella tradizione della festa nasce l’idea che poi emerge nel tempo, di antichi sacrifici cruenti. Possibile? Tuttavia nella letteratura latina la festa è sempre piacevole e gratificante: «Hospitium festivum» dice Plauto «piacevole incontro».
Tertulliano scrive a suo padre: «O pater mi festissimo» - «O padre mio carissimo».
Troppo spesso la festa, oggi, si tinge di sangue: delitti da forze demoniache, incoscienza da giochi pericolosi.
Dall’antica radice sana, gioiosa e sacra doveva nascere un albero di meravigliosa civiltà. È nato e si farà sempre più frondoso. Purtroppo alcuni rami, non so se tanti o pochi sono velenosi.
Ricordiamo che è compito nostro far diventare questi rami sani, verdi di speranza, vermigli soltanto di amore per tutti, ma specialmente per i bambini che hanno bisogno di un futuro impegnato, ma tranquillo.
Se il Leopardi, sopra citato, ha una vena di mestizia, ecco per i bambini, ancora il Leopardi sereno e pieno di speranza: «Garzoncello scherzoso/codesta età fiorita/ è come un giorno d’allegrezza pieno/ giorno chiero e sereno/ che precorre la festa della tua vita».
Oso pensare che il Leopardi dell’Infinito, avesse in mente di avvolgere il «garzoncello» negli «infiniti spazi». DEL DIVINO.
Giovanni Battista Chiaradia