Semplicità e sobrietà - di Mons. G.B. Chiaradia


04/07/2009
È arrivato il caldo e, con il caldo, le vacanze per gli studenti, le ferie per i lavoratori, per i disoccupati e quelli colpiti dalla «crisi» non è arrivato niente per ora, anzi, al sole cocente e raggiante è sopraggiunto un imperioso buio per nulla attenuato da ripetute promesse.
Il desiderio, anzi la giusta esigenza di un po’ di riposo, di aria frasca o di una nuotata, per alcuni, almeno, si sta spegnendo, nell’incognita del futuro.
Quando mai si realizzerà quel meraviglioso detto di S. Paolo: «In realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei e Greci, schiavi e liberi e tutti che siamo stati abbeverati ad un solo Spirito»! (1 Cor. 12).
Quel «tutti» chissà quando si realizzerà nella storia del quotidiano, avvolto com’è ora in differenze enormi di chi nuota nell’oro e di chi si arrabatta nel fango!
Non pensiamo che sia tanto difficile entrare nella realtà di due parole che fanno parte del nostro vocabolario dalla notte dei tempi ad oggi: semplicità e sobrietà.
Si, davvero: dalla notte dei tempi di tanti secoli fa nacque quell’Omero (che non si sa chi sia e forse non è mai esistito) che ha inventato Penelope la quale, con sobrietà e semplicità, tesse una tela per lo sposo che deve tornare dal disastro della guerra.
Già col suono delle parole «sobrietà e semplicità» ti senti avulso dalla catastrofica violenza del grave, dell’ottuso, del volgare, del triviale per entrare nell’atmosfera dell’agilità, della scioltezza, della raffinatezza, della grazia e proprietà del corpo: pudore, modestia, riservatezza. Perché non ripeterle queste parole prima di uscore di casa, per non perdere la signorilità del passo, del gesto, del sorriso?
L’aggettivo «puro», nel greco Kataros, ha il significato di «libero». Libero da che cosa? Dalla mancanza di riguardo, dalla disinvoltura, dalla sfacciataggine, dalla spudoratezza che infestano le nostre strade e, in questo tempo, le nostre riviere.
Tutti questi concetti sono compresi nella sobrietà della persona che, convinta di essere una concretezza quotidiana, avverte quindi desiderio di donare attorno, non solo una presenza limpida, ma anche le «cose» che l’altro non ha, specialmente quando si tratta proprio del pane quotidiano, del tetto, di vestiti decenti, di medicine, di ospedali; di case, non capanne, tuguri indecenti ai margini delle città gonfie di cose di poteri.
E noto, nei Vangeli, che Gesù conosce due nomi di Dio: «Abbà» e «Mammona». Il primo appartiene al Padre suo, il secondo si presenta come anti-Dio che distrugge ogni iniziativa di solidarietà e di amore.
Stando alla radice ebraica, Mammona significa sicurezza, per cui è il Dio delle certezze nel mondo ebraico.
Anche oggi, nel mondo, ciò che dona sicurezza, fiducia, potere è l’accumulo delle risorse umane, della ricchezza che donano alla persona la forza del potere.
I rabbini, all’epoca di Gesù, distinguevano tra «Mammona di giustizia e Mammona di inquità». Oggi diremo ricchezza onesta e ricchezza disonesta.
Gesù non fa questa distinzione. Mammona è sempre disonesta: è ingiustizia se non cerca il confronto concreto con il povero affinché il benessere diventi la condizione essenziale di tutti.
Il benessere diventa iniquo, quando appartiene solo ad una piccola parte dell’insieme.
Le statistiche lo affermano.
Giovanni Battista Chiaradia