L'Anno Sacerdotale (2) - di Mons. G.B. Chiaradia

Il Curato d'Ars e il servizio militare

30/10/2009
Il ventenne futuro curato d’Ars alle prese con il servizio militare: «È mai possibile, diceva, che io possa servire chi ha offeso il Papa cacciandolo dalla sua casa?». Fatto sta che decise di non presentarsi alla leva e visse qua e là, nascosto, finché ottenne, da un capitano dell’esercito che lo ammirava, di farsi sostituire dal fratello, che partì al suo posto.
Da questa vicenda inizia la preparazione agli studi del Seminario, che però era stato distrutto. Si preparò con i Parroci, di nascosto, per paura della polizia.
A 25 anni superò il primo gradino e poté vestire l’abito talare. Passò alla scuola di filosofia per poco più di un anno e finalmente alla teologia. All’esame finale il voto fu «debilissimus», più o meno come per la prima ammissione agli studi del Seminario.
I voti, facilmente traducibili dal latino, anche da chi non l’aveva studiato in quei tempi, avevano questa scala: optime, bene, mediocriter, debilissimus.
Al nostro Giovanni Maria Viannej affibbiarono l’ultimo: «debilissimus».
Erano i giorni della disfatta di Waterloo. Per Giovanni Maria, invece, fu il giorno della vittoria. Gli esaminatori, che l’avevano definito «debolissimo», lo ammisero agli ultimi studi di teologia per giungere al sacerdozio. Il cammino ora fu breve.
Il candidato Giovanni Maria Viannej venne interrogato lungamente dal Vicario generale, che rimase stupefatto delle risposte, tanto che il «debilissimus» si cambiò in «valde». «Davvero molto preparato!»
Che cosa era avvenuto in quella testa? Che cosa c’era stato in quella persona?
La sua non era sicurezza, aveva sempre avuto paura di non essere capace di parlare di Dio. Del Signore sentiva un’attrazione costante e fortissima, ma nello stesso tempo tremava alla sua presenza.
Da qui la stranezza, la singolarità di questo giovane candidato al Sacerdozio.
Ama Iddio con tutto se stesso, ma ne ha paura; se lo sente vicino, anzi avverte in tutto il suo essere la Sua presenza. E proprio per questo ha in sé un tormento per cui vorrebbe fuggire, stare lontano dall’altare, dal Tabernacolo. Eppure lo vuole il Tabernacolo, l’Altare. È quella paura che prese i pastori la notte in cui nacque Gesù (Luca 2,9). San Paolo (Ef.5) afferma: «Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Dio». Il timore, nell’originale greco, è «fobos», che va tradotto «paura».
In tutto il Nuovo Testamento il timore di Dio appare come motivo di un retto atteggiamento cristiano. Gesù stesso ha inculcato nei suoi discepoli l’insistente ammonimento di temere quel Dio che può condannare corpo ed anima nell’inferno, perché è terribile cadere nelle Sue mani (Mt. 10,28, Ebr. 10,27). Questo ammonimento, come dimostra la predicazione degli Apostoli (2 Cor. 5,132), è in chiara connessione con l’attesa del giudizio. San Paolo raccomanda ai cristiani di Filippi di operare la loro salvezza «con timore e tremore» (Fil. 2,12).
Il curato d’Ars conosce bene questi passi della Sacra Scrittura e tanti altri che parlano di timore che, come ho già detto, la parola greca «fobos» traduce con «paura».
Allora quell’uomo, il curato d’Ars, alto come il cielo e nello stesso momento piccolo come una colomba, semplice come un bimbo, si ripara dalla paura del Signore con l’ombrello che porta sempre con sé. Eppoi, per vedere che faccia ha, quando si presenta all’altare e al confessionale, si dà una guardatina ad uno specchio, anche questo suo compagno quotidiano, per rendersi conto di come si presenta davanti al sacro!
Il semplice, il maestoso, il piccolo, il grande, il sublime e il meschino si intrecciano in quest’uomo che ti conquista e ti interroga. Compagno di viaggio non solo dei Sacerdoti, ma di tutti, per camminare in dignità e trasparenza.
Mons. Giovanni Battista Chiaradia