LA PAROLA di mons. Giovanni Battista Chiaradia

… espressione della realtà di ciascuno di noi…

30/06/2013

La parola non può avere il primo posto nella vita quotidiana finché l’uomo riterrà valido il detto: “Non parole ma fatti” con il quale si giudica il prossimo e si ritiene autentica, importante, credibile la persona. Così la svalutazione della parola porta a conseguenze altamente negative che si registrano proprio nel nostro tempo.

Lo psicologo avverte che il bello, il brutto della parola deriva dal fatto che è l’espressione dei contenuti che la persona ha in se stessa; in terminologia cristiana: “Nella propria anima” oppure “nel proprio Io”. Individuare “dove” inizia la parola scelta o sciatta è molto facile: la casa, la famiglia, talvolta le amicizie un po’ singolari.

Se i componenti della famiglia o gli amici usano parole sciatte o addirittura indecenti, poco importa che siano laureati o occupino posti di prestigio: la parola forbita o sguaiata definisce la persona.

Non è necessario essere psicologi per accorgersi che la persona che usa un linguaggio indecente, dimostra il tono morale del suo quotidiano. Perderson, israelita, ha una definizione della parola: “E’ l’espressione corporea dei contenuti dell’anima; chi rivolge una parola ad un’altra persona, trasmette a quell’anima ciò che ha creato nella propria”.

Questo valore attribuito da Israele alla parola è comprovato da numerose testimonianze della Bibbia dell’Antico Testamento: Adamo nomina gli animali  e così esprime la sua superiorità su di loro.

Le ultime parole di un morente posseggono una energia di significato che deve essere custodita con cura. Giacobbe avverte che sta per morire e rivolge ai figli Ruben, Simeone e Levi delle maledizioni perché hanno commesso gravi errori: “Maledetta la loro ira e la loro collera”.

I Sacerdoti dell’Antico Testamento sanno che le parole che pronunciano non sono proprietà loro, ma un atto di Dio stesso: è Dio che suggerisce ai sacerdoti il modo di esprimersi.

Nel Nuovo Testamento la parola ha rilievo come parola di Gesù. Il sacerdote deve rendersi conto che parla al posto di Gesù. Paolo ne dà l’esempio: nelle sue lettere, che hanno carattere prevalentemente didattico e sono composte per la comunità, fa sempre riferimento alle parole di Gesù e non alle sue azioni: per esempio, le parole dell’ultima cena nella prima lettera ai Corinti capo 11 e quelle sulla fedeltà coniugale 7,10 contengono allusioni e detti del discorso della montagna. Gli evangelisti adoperano il termine “Logos” – parola, per indicare i discorsi fatti da Gesù.

Marco 8,38 e Luca 9,26 suggeriscono l’idea che delle parole di Gesù ci si debba vergognare, anzi più che di vergogna si dovrebbe parlare, nel linguaggio greco giunto a noi, di codardia forse per paura dei persecutori: “Chi si sarà vergognato di me e delle mie parole anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui”.

Anche quando la parola non ha una efficacia dinamica, non è mai insignificante, essa ha un suo peso là dove non si tratta della parola di Gesù. È Gesù stesso a ricordare ai discepoli l’importanza delle loro parole: “In base alle tue parole sarai giustificato, in base alle tue parole sarai condannato” Mtt. 12,37. La parola, infatti, non è una cosa estemporanea, fuggevole, alla quale non va attribuita importanza, essa, al contrario, è l’espressione della realtà di ciascuno di noi.