L'Anno Sacerdotale (4) - di Mons. G.B. Chiaradia

La coscienza interroga

30/10/2009
Dopo i nobili esempi di due Sacerdoti, il curato d’Ars e don Gnocchi, che insieme abbiamo considerato in queste pagine, penso ad un esame di coscienza: chi sono io?
Che cosa insegno col passo quotidiano, con la mia presenza anche senza parole?
Ecco la coscienza. Esaminiamo la parola perché entri nel quotidiano e ci interroghi.
Intanto, come presenza, per meritare il titolo di «persona» e di «comunità», il gruppo umano deve osservare nei suoi obiettivi e aspirazioni tutto ciò che è positivo per la persona e l’insieme, senza compromessi e cedimenti.
In questi giorni il Papa in una conferenza ai Vescovi ha detto: «Per meritare il titolo di comunità, un gruppo umano deve corrispondere, nella sua organizzazione e nei suoi obiettivi, alle aspirazioni fondamentali dell’essere umano. Per questo non è esagerato affermare che una vita sociale autentica ha inizio nella coscienza di ognuno». Anzi, continua il Pontefice, «tutto ciò non è prerogativa dei soli cristiani, anche se dalla fede ricevono luce e forza straordinarie. La coscienza appartiene ad ogni uomo che aspira alla verità e che è attento e pensoso per le sorti dell’umanità. È chiaro il pensiero del Papa su una responsabilità collettiva. Le sortite personali illecite sono delitti. A questo punto anche la scienza attesta che «la colpa, specialmente di un certo tipo, si riversa non solo nei figli, ma nella generazione e nell’insieme sociale. L’esame di coscienza non è facile talora, perché ci giustifichiamo e pensiamo che un fatto compiuto all’oscuro non venga alla luce.
Platone ricorda una definizione di Socrate: «Sono consapevole che non sono né molto né poco saggio». È un atto di umiltà doveroso specialmente quando sulle spalle pesano delle responsabilità fortissime verso la famiglia e l’insieme politico. Per non essere dei superficiali, il sapere della coscienza, che talora si giustifica da sola, deve invece derivare dall’obbedienza assoluta alla legge di Dio.
Già questa dottrina si trova nella tradizione culturale dove si parla esclusivamente di una coscienza cattiva, mentre i Romani sono in grado di parlare di una coscienza buona o addirittura «optima et preclara». Tuttavia anche per i Romani era necessaria la tutela di Minerva, identificata con la dea greca Atena o Pallade, dea delle arti e della giustizia, protettrice dello stato e delle opere pubbliche.
Seneca definisce la coscienza una «sentinella» posta da Dio affinché la persona, con questo aiuto, viva in armonia con la natura e realizzi una personalità sicura.
Tanto nell’ambiente greco come in quello romano, per avere un comportamento saggio è necessaria la divinità.
Nell’Antico Testamento non esiste un vocabolo specifico per indicare la coscienza.
Tuttavia per l’Ebreo dell’Antico Testamento al posto di una chiarificazione con la propria coscienza c’è la resa dei conti a Dio e alla sua legge. Il sapere della coscienza viene sostituito dall’ascolto attento della legge di Dio. Con questo non si può dire che l’Ebreo dell’A.T. non conosca una coscienza cattiva in quanto tale. Però per l’Ebreo la coscienza non ha alcun valore proprio. È la voce di Dio che esige dalla persona l’esame finale, scrupoloso, del suo comportamento.
Questa voce fa battere il cuore di Davide peccatore e lo invita alla penitenza e gli fa dire col Salmo 51,12 «Crea in me o Dio un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo».
Ancora più chiaro è il concetto di cuore dell’A.T. e quello greco in Filone. «La coscienza è una entità guidata da Dio: come accusatore incolpa, accusa e svergogna; come giudice insegna; se riesce a convincere si rallegra, altrimenti ci inquieterà per sempre».
Mons. Giovanni Battista Chiaradia