Come possono i divorziati vivere la propria fede Cristiana? (aggiornata)

Risponde P. Giuseppe Pirola sj

31/03/2009
«Uno tra i maggiori problemi (potrebbe parlarsi sotto altri versi di una vera e propria sfida), che la Chiesa Cattolica si trova ad affrontare in questi tempi è quello di vedere assottigliarsi con progressività crescente il numero dei suoi fedeli a causa dello stillicidio dovuto ai divorzi, con interminabili ricadute a catena sui figli nati ad di fuori di matrimoni cristiani. Le cause di queste vere e proprie sventure che possono capitare a chiunque, spesso anche contro la propria volontà, come passiva accettazione di una incontrastabile scelta operata autonomamente dall’altro  coniuge, non servono in nessun caso, salvo quelli previsti e disciplinati dal Diritto canonico  che devono essere accertati e ratificati dai Tribunali Ecclesiastici, a modificare l’inflessibilità della Chiesa Cattolica.
 Sull’argomento tanto si è detto o si dice, ma nel frattempo che fine fanno le anime dei poveri malcapitati i quali non possono più avere accesso al sacramento della comunione?
La domanda, quindi, è questa: come è possibile aiutare a continuare a far vivere la propria Cristianità in modo pieno e totale  anche a chi, pur da credente ai principi del cattolicesimo, si trova a dover subire  per errore o per forza tra  le conseguenze del proprio divorzio anche quella di essere estromesso dalla Chiesa e dai sacramenti?»
 
 
Risponde P. Giuseppe Pirola sj
Comincio a risponderle con una frase di un importante teologo domenicano, P. Garrigou Lagrange: «La Chiesa tiene fermi i principi ma è larga nell'applicazione ai singoli casi». E vuol dire che la Chiesa tiene ferma l'indissolubilità del vincolo matrimoniale ma è larga nelle applicazioni ai singoli casi cui lei accenna, e che sono noti, quanto l'estensione del numero dei casi. Il motivo: la legge non può prevedere tutti i casi singoli, e l'applicazione non può essere quindi matematica, ma prudenziale caso caso per caso. Al contrario la legge italiana non tiene fermi i principi, non perchè ammette il divorzio con una legge che li rende facilissimi, ma perchè la legge matrimoniale italiana non tutela il vincolo matrimoniale ma la libertà dei contraenti prima e durante tutto il tempo del matrimonio. La conseguenza l'hanno tratta i giovani di oggi, con una logica ineccepibile, e cioè la libera convivenza. Se il matrimonio è amore, l'amore è libero,  e se  non è libero non è neppure amore (e hanno ragione in linea di principio), basta che chi convive abbia cura del suo legame d'amore, senza inutili pratiche burocratiche per sposarsi in chiesa o no, o per divorziare civilmente.
Tornando al matrimonio ecclesiale, e ricordandole che il matrimonio ecclesiale è libero e deve essere fatto liberamente, come consta dalla domanda rivolta ai contraenti all'atto della celebrazione del  matrimonio in Chiesa.
La Chiesa tiene fermo per motivi sociali il principio evangelico del sacramento del matrimonio, che perciò è indissolubile, basato sull'amore con cui Dio ci ha amati per primo, ed è di altra qualità dal semplice amore umano; è un amore cioè capace di correggere e di lasciarsi correggere, capace di chiedere perdono e di perdonare, di custodire e avere cura quotidiana del proprio mutuo amore o vincolo amoroso, per vivere insieme il proprio rapporto con Dio e il proprio amore perdurare per una vita intera.
Lei ha ragione ad obiettare che si può essere abbandonati dal coniuge senza propria responsabilità; e, aggiungo, che per risolvere il caso occorre che il coniuge che se ne è andato ritorni volontariamente e liberamente sui suoi passi, il che non è facile da fare e in certi casi non è neppure opportuno o possibile fare. E allora, usufruendo della larghezza della Chiesa nell'applicazione, che esige la conoscenza precisa del singolo caso (legato ovviamente a fatti e motivi personali), si può ricorrere a qualche sacerdote competente e fedele alla sua missione di carità, in privato, come il singolo caso esige: e vedrà che il sacerdote saprà risolvere il caso singolo anche oltre le soluzioni note -separazione o ricorso ai tribunali ecclesiastici per la nullità di matrimonio, concessa se i motivi addotti sono fondati e antecedenti alla data del matrimonio stesso. Mi creda: la Chiesa nell'esercizio della propria missione apostolica affidatale da Cristo stesso, non intende abbandonare la vita di un coniuge, separato per ragioni non viziose e fondate, alla sofferenza, preferendo l'ineccepibilità senza eccezioni della legge alla libertà sensata di un uomo o di una donna cristiana sposati: la Chiesa non intende né cambiare i principi per ragioni sociali, né fare un elenco di casi, solo apparentemente pochi, che finisce di fatto con l'eliminare la necessità della legge stessa; né favorire la libertà delle singole persone a scapito di un costume socialmente positivo; vuol tenere insieme sia l'una a favore delle singole persone sia l'altra per motivi sociali, eliminando il conflitto tra le due istanze. Mi pare che questo fosse l'argomento della sua domanda, e non riguardasse un preciso caso singolo, che è da trattarsi solo privatamente.
 Giuseppe Pirola sj
 
 
Replica 2 aprile 2009: «la ringrazio per l’esauriente, saggia ed articolata  risposta che mi ha voluto riservare.Personalmente credo che essere uomini cristiani significhi avere  consapevolezza  di avere Dio dentro se  stessi, nel proprio animo e nel proprio cuore, basta cercarlo. Tale comprensione porta poi, come automatica conseguenza, a riconoscere Dio anche  nel nostro prossimo.
 Il punto è che l’uomo raggiunge tale  comprensione  (cioè termina con successo  la sua ricerca di  Dio),  solo dopo un suo lungo e personale percorso di vita che non è in  alcun modo possibile programmare o pianificare. Credo che comunque l’importante sia arrivarci in vita, magari (anzi, inevitabilmente), commettendo errori anche gravi.
In quel momento, quando l’uomo, magari (anzi, certamente), con enormi difficoltà, è  quindi riuscito a  raggiungere tale consapevolezza trovando Dio,  credo che la Chiesa   debba essere pronta in tutti i modi a riaccoglierlo (nuovamente) tra le  sue braccia (che poi sono quelle di Dio).
Cordiali  Saluti.»
 
 
Risponde P. Giuseppe Pirola sj
Mi creda, la Chiesa non può fare altro che accogliere il figlio che torna nelle braccia del Padre, perchè questa e non altra è la missione che il Padre e Cristo hanno affidato alla Chiesa. La confessione è un sacramento che il Signore ha istituito perchè conosce la nostra fragilità e debolezza, che per Lui è il campo aperto all'intervento della sua misericordia,per tutto il tempo di durata della nostra vita. Nel peccatore Dio non vede che il figlio suo che si era perduto ed è stato ritrovato o è tornato; e la Chiesa, e cioè qualunque sacerdote, o lo sa o gli va ricordato con garbo, ma con fermezza.
La Chiesa deve dire che un'azione è peccato, e lo può dire solo  in base alla Scrittura o Parola di Dio, perchè il peccato è ciò che non è gradito al Padre e cioè tutto ciò che viola l'amore per i suoi figli e tra i suoi figli; ma deve anche distinguere tra peccato e peccatore, perché non ha avuto nessuna missione di giudicare il peccatore, ma solo quella di concedergli il perdono di Dio. Il giudizio di condanna Dio lo ha riservato a sè, e non ci ha precisato su che cosa verterà, salvo l'avvertimento che verterà sull'amore del prossimo, se abbiamo amato il prossimo, specie chi ha fame, chi ha sete ecc. L'esame verte sulla vita quotidiana, non sulle pratiche devote o meno, che non mutano la nostra vita. Le auguro una buona Pasqua.
Giuseppe Pirola s.j.